Author Topic: Allen Vizzutti Costruire la fluidità nel nostro modo di suonare la tromba  (Read 2194 times)

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Offline iMaurizio

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Sì certo, io volevo sottolineare che molti studiano scale, accordi, ma non il linguaggio.

Sarebbe certamente un errore, anche perché penso che imparare il linguaggio, laddove intendiamo pronuncia e articolazione,
sia paradossalmente più semplice che imparare ad improvvisare con efficacia.

C'è una certa analogia a quello che accade quando si vuole imparare una lingua, se uno vuole imparare l'inglese non serve che si impari a memoria tutte le declinazioni dei verbi irregolari se poi non sa pronunciare correttamente le espressioni basilari della lingua.

Con il jazz penso che suonare dei temi sui dischi (insieme al disco e confondendosi con esso) e dei Soli o frammenti di Soli, ovviamente cercando di imitare il più possibile quello che si sente,  sia il metodo più rapido e facile per assimilare in modo induttivo i principali tipi di pronuncia e di nuance espressive.

Diverso invece è l'approccio all'improvvisazione, laddove il suonare le note "giuste" è certamente importante, ma non è l'obiettivo primario né quello finale.

Col passare del tempo mi convinco sempre più che lo studiare i vari esercizi "spaccacervello", soprattutto per chi non è professionista e non avrà mai il tempo di andare molto a fondo con quell'approccio, si riveli una pratica utile da un punto di vista della tecnica dello strumento, ma troppo poco proficua da un punto di vista della costruzione di una "capacità narrativa".  :)

Offline Zosimo

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Offline dirtysound

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Un saluto al caro iMaurizio. :) .... il quale zitto zitto , tomo tomo, lascia cadere così , con "nonchalance" la frase  :
Quote
la costruzione di una "capacità narrativa  ! ! !"
  :D  ;)

Vogliamo ... una "definizione " ,.... Quando avete sentito la necessità di  iniziare a ricercare  una vostra propria capacità narrativa ed in quanto tempo l'avete sviluppata ?  .....Come avete "imparato" e dove siete andati  a "ricercarla ,.... costruirla"... Si impara ?  .... E' una ricerca/interpretazione dentro il proprio animo ?
Come la "riconoscete" negli altri ?.....

 ;)  :)  :D
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Offline dirtysound

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Riflettevo sul significato di " narrazione " , ... su cosa essa vuole esprimere ....
A questo proposito ho trovato questo articolo su cosa la narrazione "letteraria" vuole esprimere. L'ho trovato molto bello, profondo ed interessante.
...So che ci sono dei Buoni Lettori qui.....
Penso che quello che in esso è scritto vada bene , alla stessa maniera, anche  se lo considerassimo/lo pensassimo essere ,stato scritto, con un riferimento ad una "narrazione musicale " ,  invece che ad una "narrazione letteraria "  ;) :).

Ecco il testo :

LA NARRAZIONE   
Ognuno di   noi ha una   storia del proprio vissuto, un racconto   interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita.      
Si potrebbe dire   che ognuno di noi costruisce e vive un   racconto, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.
Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi,possedere, se necessario ripossedere, la storia del nostro vissuto.
Dobbiamo ripetere noi stessi, nel   senso etimologico del   termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi.
L’uomo ha   bisogno di   questo racconto, di un racconto interiore continuo, per   conservare la sua identità, il suo sé.      
(Oliver  Sacks,  1986)
La narrazione è una pratica sociale ed educativa che da   sempre risponde a molteplici e complesse funzioni:
dal “fare memoria” alla condivisione di esperienze collettive, dall’apprendimento al puro intrattenimento.
Nella storia evolutiva dell’uomo, il narrare ha risposto e continua a rispondere a una necessità   profonda, addirittura primordiale. La narrazione si presenta come un concetto trasversale all’oralità (tipica dei popoli primitivi) e alla scrittura (tipica delle società più evolute). Sia le “civiltà illitterate” sia le “civiltà alfabetiche” hanno utilizzato la narrazione,   pur avendo forme diverse.
La narrazione è da sempre usata dall’essere umano. È uno strumento importante di interpretazione della realtà per interagire con il mondo sociale nel quale noi essere umani viviamo. È dunque un modo per comprendere tutto quanto ci circonda   e per   trasmetterlo agli altri.
Perché è utile narrare?
La narrazione consente: di esplorare e comprendere il mondo interno degli individui in quanto conosciamo noi stessi e ci riveliamo agli altri attraverso le storie che raccontiamo, ma ci consente anche di esplorare esperienze individuali e collettive, campi e corsi di azione, situazioni problematiche di difficile interpretazione, consentendo di comprenderne e decostruirne/ricostruirne il significato culturale e sociale.
Inoltre, attraverso il dispositivo narrativo l’agire umano è collocato in uno specifico tempo e spazio, è dotato di intenzioni e motivazioni, è inscritto in rapporti di causa/effetto e/o di reciprocità con altre azioni ed eventi, infine, è connotato di un significato culturalmente riconosciuto e riconoscibile. Anche per questo, i dispositivi narrativi assumono nel contesto educativo particolare rilevanza.
   
Il dispositivo narrativo consente ai soggetti di ripensare le proprie esperienze e le proprie azioni ricostruendone il senso ed evidenziandone le possibili prospettive di sviluppo, portando alla luce le intenzioni, le motivazioni, le opzioni etiche e valoriali in esse implicate, inscrivendole all'interno di una rete di significati culturalmente condivisi, riconoscendo ad esse continuità ed unità; ... ciascun continuum all'interno dell'esperienza di una persona e che quindi acquista un significato unitario è così riconoscibile come “unità narrativa” (Connelly, Clandinin,1997,2000) e viene a far parte di una sequenza/intreccio di una  unità connotata da una direzionalità e un senso.
La narrazione costruisce e dipana sequenze esperenziali da accadimenti, eventi, situazioni cui conferisce unitarietà e ne trae elementi conoscitivi sulla base di specifici interessi euristici.(....   euristico : quando ci si accontenta momentaneamente di un’approssimazione, il procedimento è euristico ).
C'è una struttura narrativa nell'esperienza umana   che nel narrare si configura attraverso l'elaborazione di intrecci.
È attraverso gli   intrecci – e dunque entrando in una narrazione – che l'esperienza temporale dell'essere umano può acquistare un significato, in qualche misura condivisibile perché si narra sempre a qualcuno, a un destinatario presente o assente, oppure a se stessi.
In altri termini, con i racconti di cui diveniamo capaci variano le configurazioni che possiamo riconoscere nell'esperienza, riposizionandoci di conseguenza rispetto al passato e al futuro.
Le narrazioni permettono inoltre cioè di esplorare l'infinità dei significati possibili di un'azione, nelle variabili connessioni che si possono istituire tra antecedenti, coincidenze, conseguenze e implicazioni: in tal senso c'è un nesso tra il narrare e il conoscere.
Duccio Demetrio, fondatore della Libera Università dell’Autobiografia, afferma   infatti che la scrittura è lo strumento che consente di farsi da se stessi:  “Quando ripensiamo a ciò che abbiamo vissuto, creiamo un altro da noi. Lo vediamo agire, sbagliare, amare, soffrire, godere, mentire, ammalarsi e gioire:  ci sdoppiamo,   ci  bilochiamo,  ci  moltiplichiamo....
La narrazione di   sé, il   racconto autobiografico, possono   essere quindi considerati una potente modalità di cura, in quanto: narratore e protagonista coincidono, ma è come se non fossero la stessa   persona.
La scrittura autobiografica è capace di cambiare la rappresentazione dei fatti biografici, non i fatti in sé, che rimangono tali nella storia di vita della   persona.
Essa consente di risignificare i vissuti grazie   alla distanza che si viene a creare tra il sé narrato e il sé narrante: una   “bilocazione cognitiva   “,   usando sempre le parole di Demetrio,   ossia, la capacità di ognuno nella narrazione di dividersi...senza perdersi:  “Per rientrare in se stessi, per rimettere in ordine le tessere scompigliate della sensazione di panico emergente, il rimedio è costituito dall’imparare, senza paura, a sdoppiarsi e moltiplicarsi. Soltanto nel   momento in cui diventiamo capaci di questo proviamo l’emozione di rinascere, perché assistiamo alla nascita dei molti "io" che siamo stati,..   li seguiamo nei loro primi passi, ...li vediamo confondersi tra loro senza più continuità nei passaggi
che hanno   attraversato”.
La scrittura consente dunque di dare senso e significato rispetto al proprio vissuto, attivando un processo che “ridimensiona  l’Io  dominante  e  lo degrada a un Io necessario — anche per l’opera autobiografica — che possiamo chiamare   l’Io  tessitore, che collega e intreccia;  che, ricostruendo, costruisce e cerca quell’unica cosa che vale la pena  cercare  — per il gusto di cercare — costituita dal senso della nostra vita e della   vita”   (Demetrio,   1996).
L’atto narrativo  è quindi un  mezzo utile non solo per chi svolge la professione di cura, ma anche per i soggetti con i quali, e per i quali, si lavora, in quanto genera cambiamento: “Il ripercorrere la propria storia rappresenta un motivo di sicurezza, dal momento che mostra come il cambiamento sia un elemento presente in tutto l’arco dell’esistenza, di volta in volta affrontato e rielaborato in   modo spesso inconsapevole.
I cambiamenti possono essere ricostruiti solo in prima persona attraverso la riflessione autobiografica in grado di rendere conto di quelli che sono stati i mutamenti più profondi”.
La narrazione, il   racconto autobiografico, sembra così avere non solo un   potere curativo e catartico, ma anche trasformativo e performativo, che conforta e, allo stesso tempo, stimola il cambiamento: “Il conforto recato dalla narrazione risiede nella possibilità di esteriorizzare il problema, in una sorta di liberazione data dall’espulsione simbolica dei fantasmi interiori; il racconto genera infatti, quel distacco necessario all’accettazione ed elaborazione dei vissuti dolorosi”   (Demetrio,   1999).
La scrittura, in quanto atto performativo, consente all’individuo di compiere operazioni di autoriflessione e quindi di "cura del sé", consentendo di esplorare la propria   identità attraverso una metodologia auto-curativa.
Quando si scrive, infatti,  si scopre qualcosa   di sé   , ed è proprio in questo senso che la scrittura può   essere considerata come sistema di cura, in quanto rende evidenti i significati  latenti presenti in   ogni individuo.....


...Mi viene da pensare (pensando alla narrazione musicale) ai gospel , ai primi brani cantati dagli schiavi o a qualunque altro motivo di dolore o di malessere emotivo o meno, che nella vita,  uno o più individui,  hanno vissuto e condiviso ; ... dove il cantarli / suonarli consente loro  di  prendere coscienza, riconoscere le situazioni ed i contesti,  ed inoltre  la  comune condivisione  permette di : lenire ,  superare e affrontare  il dolore da esse provocato ... Senza  però , per forza di cose,  pensare  a situazioni che provocano un  dolore  emotivo, mi ricollego a quanto detto all'inizio dell'articolo, ovvero  su cosa la  "narrazione"  possa permettere di esprimere :  l'esternalizzazione  del proprio vissuto , del proprio "Io" conoscitivo e personale che ognuno dentro di sè ha e che può  parimenti essere inteso anche in senso musicale).
Ecco che il suonare un brano o su un brano deve suggerire il senso di una narrazione di come il musicista, attraverso il suo vissuto emotivo e musicale , lo interpreta.

P.S. Il soffermarci e riflettere su un po' su aspetti dei quali a volte , siamo consci in maniera latente , ci apre a nuove e consapevoli conoscenze  del nostro  " Io " ... ... :)
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Offline iMaurizio

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Riflessioni interessanti, ma prima di addentrarsi nel significato e nelle implicazioni di cosa sia il "narrare" e di quali possano essere le corrispondenze nella musica, partirei da un punto più basilare.

A mio parere un musicista per poter diventare un improvvisatore deve avere alcuni requisiti che ritengo indispensabili, e che possono essere riassunti in una sorta di "vocazione". Deve avere la necessità di esprimersi in quella modalità, e per questo deve saper mettersi un po' a nudo davanti agli ascoltatori e prendersi il rischio di una certa percentuale di imprevisto.
Occorre quindi un misto tra ego, bisogno di esprimersi e piacere nell'usare quel tipo di modalità.

Tutto il resto si impara e anche senza difficoltà insormontabili.  8)


Molti strumentisti, anche di livello alto e più spesso provenienti da un background formativo di tipo classico, fanno o hanno fatto l'errore di ritenere l'improvvisazione una sorta di prassi esecutiva, quindi un qualcosa di strettamente codificabile e studiabile su un paio di libri o praticando una serie di esercizi.
La storia ci insegna che non è così e si potrebbero fare molti esempi dimostrativi di come la parte più importante di un improvvisazione non siano le note, le scale, i fraseggi che si suonano, ma ben altro.

Offline dirtysound

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Sostanzialmente sono d'accordo, ( al 70 - 80%...) . C'è una parte sulla quale mi soffermeri , con qualche riflessione in più.
(Ed è una parte sulla quale sto' insistendo già da un po' di tempo anche in altri post). Ed è quella relativa all' "imparare " a guardare dentro di  sè, a guardare il proprio vissuto emozionale e "imparare "/ " cercare " di tirarlo fuori (musicalmente parlando).
E' indubbio che non basti imparare le scale , i fraseggi , suonare i licks , o suonare qualche nota dissonante per saper improvvisare o   quantomeno per saper interpretrare un brano. Basta ascoltare il video presentato da Zosimo (Bella Lezione ) per capire quando e quanto un giovane musicista è ancora acerbo e ancora lontano da una propria identità musicale , ( video dal quale si capisce che dare un'espressione musicale non è il conoscere la scala e suonarla scolasticamente ,( che purtuttavia è da lì che devi partire ), ma è capire come dargli differenti espressioni , a seconda del tuo "sentire" musicale ). Se ascoltiamo i grandi del jazz, dai/dalle cantanti agli strumentisti, partendo dagli inizi della loro carriera e poi li ascoltiamo a fine carriera, è evidente come, col passare del tempo, siano stati capaci di arricchire (pur continuando nel tempo  ad esternare la loro propria ed individuale identità musicale ), il loro proprio modo espressivo musicale ; e che, secondo me , passa anche dall' aver imparato , sempre meglio , nel corso degli anni, a saper cercare dentro di sè e valorizzare le emozioni che il brano o il proprio vissuto (musicale e non) gli suggerivano .

Questo, secondo me è un aspetto di cui si parla poco , e che invece ha un'enorme importanza, e richiede il suo (proprio individuale (lungo ? ) tempo di acquisizione ) .

Il saper " guardare dentro di sè " è appannaggio di pochi, (una vocazione ? ) o un aspetto che si può insegnare ? o che si insegna poco perchè poi ognuno, essendo un individuo a sè, risulta poi difficile , da parte di  terze persone (insegnanti ? ), far esternalizzare un sentire che invece è proprio di ogni singolo individuo ?

Io credo che sia un po' come studiare i grandi della letteratura, o della musica, ci vuole tempo , qualcuno che te lo spieghi , qualcuno che te lo insegni.

Al Conservatorio lo fanno , ma  noi saremmo disposti a pagare lezioni per capire perchè alcuni musicisti sono diventati dei grandi interpreti , jazzisti, improvvisatori ? Capire cosa c'è da " ascoltare " in un brano , in certi passaggi , in certe nuances  espressive , per poi capire cosa cercare in noi stessi  ?
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Offline iMaurizio

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A mio parere un ruolo così conscio e proattivo da un punto di vista psicologico non è necessario per varie ragioni, che andrò ad illustrare.


Il conoscere sé stessi è qualcosa di utile in generale nella vita di un individuo, ma non ha un legame così diretto e in grado di influenzare un attività così specifica come fare un assolo su un blues ad esempio.
Un monaco tibetano o un individuo che pratica meditazione da 20 anni non hanno necessariamente un vantaggio rispetto ad uno sconsiderato che ha una scarsa consapevolezza di sé, ma ha dalla sua un grande estro creativo.
Teniamo conto inoltre che moltissimi assoli che oggi sono citati nei metodi/libri e che sono di diritto parte della storia della musica sono stati suonati da individui sotto ai 25 anni, a volte anche personaggi controversi con vite difficili.
Questo significa che il grado minimo di conoscenza di sé che ti è concesso nell'età adulta è più che sufficiente per affrontare qualsiasi brano musicale e farci un assolo da dignitoso fino a indimenticabile.


Un altra ragione che secondo me spiega perché non sia necessario cercare volontariamente di mettere sé stessi e la propria interiorità nella musica e che questo accade automaticamente anche se non ce ne occupiamo in modo conscio.
Uno strumentista a fiato, forse prima di altri, non appena appoggia lo strumento ed emette un suono immediatamente comincia a svelare qualcosa di sé, anche quello che non vorrebbe.
Dalla postura, impostazione, tipo di articolazione, suono, volume prodotto, etc..si riescono ad evincere degli aspetti caratteriali di quell'individuo.
Quando un musicista suona su un disco o in un live davanti al pubblico ancora di più non potrà evitare questa comunicazione indiretta di ciò che egli/ella è, oltre a ciò che egli/ella fa.


Aggiungo che ci sono scuole di pensiero che sostengono sia necessario avere un approccio psicologico totalmente opposto, ovvero che "l'Io" debba sparire per lasciare il posto alla musica. Più il musicista riesce ad "assentarsi" durante la performance e più riuscirà a diventare egli stesso uno strumento, un tramite per lo scorrere della musica.
Più il musicista cerca di mettere in primo piano sé stesso (anche con la propria interiorità) e più aumenta il rischio che quel musicista si suoni un po' addosso e/o che il messaggio che arriva agli ascoltatori sia sentite come sono bravo.


Ci sarebbero anche altri aspetti ma non mi voglio dilungare troppo.  :)

Offline fcoltrane

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Sostanzialmente sono d’accordo con quanto scrive iMaurizio . In merito alla scuola di pensiero credo che ad altissimo livello accada ciò che a descritto . Ricordo come fosse oggi di un seminario con il grande Stefano Bedetti e la percezione era esattamente questa . C’è da dire però che dal punto di vista tecnico quello splendido sassofonista non ha tanti rivali al mondo . C’è un livello che si trova al di sopra di tutto ma per avere la speranza di raggiungerlo “devi “ dedicarti anima e corpo alla musica.  Tornando a discorsi più bassi e a livelli molto più bassi , posso aggiungere che esiste una tecnica di insegnamento che ti consente di improvvisare in maniera tradizionale con consapevolezza. Non è un percorso facile ma ad esempio la scoperta della costruzione della linea melodica mi ha consentito di fare un enorme balzo in avanti dal punto di vista tecnico improvvisativo come del resto la conoscenza del materiale che si può utilizzare sugli accordi :

Offline dirtysound

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Beh! Ritorno volentieri su questo Post! E' indubbio che nel suonare si comunichi uno stato emotivo (involontariamente, o volontariamente). C'è chi ci riesce naturalmente ( e questi sono di quei doni che alcuni hanno e che fanno parte comunque della loro individualità ) c' è poi chi nella comunicazione musicale/emotiva ha invece bisogno di lavorarci. Certo , ho conosciuto anche trombettisti che, mi hanno raccontato, di quanto fosse bello e molto stimolante il suonare insieme ad altri, lasciandosi trasportare dal tappeto di suoni, di note che si formava " in maniera "assolutamente libera" per ognuno dei musicisti partecipanti. ... Sono tutti modi del sentire e suonare la musica...Non mi sognerei mai di dire che uno debba essere relegato ad un genere e che valga un dogma unico per tutti.

Purtuttavia non trovo contraddizione fra il suonare in maniera istintiva (....a saperlo fare ...) ed imparare a riconoscere  il / un  proprio stato emozionale e saperlo mettere/tradurre  in musica.

- Per il mio modo di sentre la  musica -

Ad esempio ( e qui mi fermo e non vado oltre ): Se ascolto Chet Baker , mi sembra di ascoltare una persona che "assolutamente" comunica , musicalmente parlando, un suo proprio stato emozionale ( ... e devo dire , che ascoltarlo ti lascia sempre qualcosa dentro , un qualcosa  che è proprio di  " suo " , ed è "unico" di Chet Baker .  In ogni suo brano, c'è/(ti dà)   sempre il " senso" di una "narrazione", di un modo di sentire "proprio" che si sviluppa durante tutto l'arco del brano....

Spesse volte, nelle improvvisazioni, si ha / (ho ) la percezione che il modo di suonare su un brano , sia esattamente la stessa, o comunque vada altrettanto bene su una stessa sequenza di accordi, che possiamo facilmente ritrovare in altri brani..
Sono pochi gli improvvisatori che riescono ad essere " unici ( e personali ) nella loro improvvisazione . (Ovviamente tanto di cappello alla tecnica, ....ma questa... è un altro aspetto....).

Il suonare in maniera " istintiva " è ciò a cui si dovrebbe tendere... ma nel mio caso.. da tutto ciò,  sono ancora distante .... ( anche se è vero che a volte certe frasi musicali , o addirittura un intero brano ti esca fuori così, senza un perchè 0 andarlo neanche a cercare...
Purtuttavia , il  cercare / il riconoscere il mio stato emotivo e cercare di tradurlo in musica ... mi fa sentire  di più su un percorso simile al percorso di Chet , o di chiunque altro ,si sente  stia esprimendo , ( quando egli suona ), un qualcosa di personale che lo rende " unico " e lo fa apprezzare nella sua   "unicità " come individuo. ....( In tutto questo , ma è una ovvietà, che  se c'è un apprezzamento musicale (che è comunque soggettivo) oltre all'apprezzamento della individualità musicale del musicista , va da sè che è meglio).( ....Siamo nell'ovvio... )

Vorrei aggiungere , a tal proposito, che mi è capitato di conoscere musicisti  (tastieristi in questo caso ) ai loro inizi, i quali proponevano delle loro interpretazioni, ( personali , purtuttavia un po' povere nel linguaggio utilizzato , (forse un po' banali e scontate in qualche passaggio) . Poichè si era in confidenza , ho provato , a volte a suggerirgli, con la dovuta educazione, di curare un po' più il linguaggio, ma la  loro risposta era che , al momento, : "per loro, era così che dovevano suonarlo perchè era così che lo sentivano" .... Si chiudevano in se stessi , come se fossero stati toccati nel loro intimo e non si sentissero compresi .... (Quanto la musica arriva nell'intimo di una persona !....)
- Analogamente mi è capitato di  conoscere bravi musicisti  con un bagaglio di linguaggio musicale più ampio  e fornito, ma che però non presentavano una  propria "individualità" musicale.

- Preciso che quanto sto' per dire non vuole essere un assunto e non ha nessuna pretesa di esserlo. -

Mi è capitato di reincontrare i primi , dopo 4 - 5 anni . Avevano ampliato il loro bagaglio ed avevano conservato/ migliorato la propria espressione musicale individuale, cosa che, ( nei secondi) e cioè a chi già "masticava " un linguaggio ampio  e fornito , mi è capitato spesso di riscontrare che , pur avendo migliorato ulteriormente nel tempo  il linguaggio espressivo, non erano stati capaci di sviluppare una propria individualità musicale ....

...Per me vale l'idea che ....bisogna curare / riconoscere / valorizzare  la propria individualità emozionale /musicale.... per i motivi esposti prima....

..ma ognuno, ovviamente,  è libero ed ha la libertà di pensarla come gli pare e dal  proprio punto di vista...
 ;)
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Offline iMaurizio

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Sono assolutamente d'accordo sul fatto che ognuno debba trovare il proprio percorso di crescita e maturazione,
certamente non ne esiste uno unico che si possa considerare migliore di altri o adattabile a tutti.
Qualunque percorso si scelga comunque l'importante è che produca dei risultati misurabili nel tempo,
con la disponibilità a fare piccoli aggiustamenti laddove possa essere utile farlo.

Dobbiamo tenere conto poi che la maggior parte dei jazzisti che usiamo oggi come riferimento e ispirazione non si sono formati con la didattica, i materiali scritti e audio, la rete e le risorse che ci sono attualmente per studiare il jazz, per cui si sono formati solo sul campo affrontando una dura selezione naturale.
Questo deve farci riflettere, e un po' ci riporta secondo me all'opinione che avevo espresso precedentemente sulla necessità che ci sia una vocazione e attitudine verso un genere musicale affinché si possano raggiungere certi risultati. (anche a livello amatoriale)

E visto che lo citiamo spesso, vorrei fare una riflessione su Chet Baker:
se ascoltiamo gli album in cui lui era giovanissimo, ancora con i denti di madre natura, ancora non tossico-dipendente, dava certamente l'idea di un bravo giovane talento, ma non è per quello che è diventato immortale. Il Chet che è nella storia è quello struggente, malato, tossico, con la bocca rifatta, che canta My Funny Valentine, che attacca le note con difficoltà, col suono soffiato, e che ha un controllo tecnico dello strumento e un estensione molto ridotta.

Dubito che nella sua condizione umana egli abbia potuto intenzionalmente e coscientemente
""curare / riconoscere / valorizzare  la propria individualità emozionale /musicale"",
non possiamo esserne certi ma è ragionevole pensare che egli abbia fatto semplicemente quello che poteva nella sua condizione
e che la sua emozionalità sia uscita senza fare alcuno sforzo cosciente e uscirebbe (come è uscita) da qualsiasi bravo musicista che si è trovato in una condizione psico-fisica e sociale molto invalidante.  (da Charlie Parker a Massimo Urbani si potrebbero fare svariati esempi)

Ed è per questo che credo che Chet oggi non possa essere un modello emozionale/spirituale a cui ispirarsi o verso cui provare empatia;
studiare la sua inventiva melodica è utile per imparare un po' di bella grammatica dell'espressione trombettistica,
ma spingersi oltre credo che possa riservare dei risultati più incerti.   :)

Offline iMaurizio

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mi è capitato di conoscere musicisti  (tastieristi in questo caso ) ai loro inizi, i quali proponevano delle loro interpretazioni, ( personali , purtuttavia un po' povere nel linguaggio utilizzato . Poichè si era in confidenza , ho provato , a volte a suggerirgli, con la dovuta educazione, di curare un po' più il linguaggio, ma la  loro risposta era che , al momento, : "per loro, era così che dovevano suonarlo perchè era così che lo sentivano"
- Analogamente mi è capitato di  conoscere bravi musicisti  con un bagaglio di linguaggio musicale più ampio  e fornito, ma che però non presentavano una  propria "individualità" musicale.

Mi è capitato di reincontrare i primi , dopo 4 - 5 anni . Avevano ampliato il loro bagaglio ed avevano conservato/ migliorato la propria espressione musicale individuale, cosa che, (nei secondi) e cioè a chi già "masticava " un linguaggio ampio  e fornito , mi è capitato spesso di riscontrare che , pur avendo migliorato ulteriormente nel tempo  il linguaggio espressivo, non erano stati capaci di sviluppare una propria individualità musicale ....

Certamente questo può succedere, e forse è un ulteriore dimostrazione che il raggiungere un certo livello di personalità/originalità nell'improvvisazione richiede delle caratteristiche che difficilmente si possono acquisire con lo studio.

Ne sono una prova i musicisti che suonano nelle big band: prendendo un esempio a caso tra i tanti
https://youtu.be/LSUDM1hwtRQ?si=qaOB7roQsesf73_0
se ascoltiamo i solisti sono certamente dei bravi improvvisatori, con tecnica e fraseggio da vendere, ma non è la loro peculiarità.

Se li ascoltassimo magari in quintetto in un disco o dal vivo, dove in una sessione fanno magari 7/8/9 assoli,
forse li troveremmo meno interessanti o meno particolari.

Ma questo non è necessariamente un problema: da un lato si può supporre che non tutti possono fare i solisti,
ma anche che tutti possono imparare ad improvvisare con fluidità, spontaneità (che è poi il tema originale di questo thread)
e raggiungere anche un certo risultato di tipo estetico.

Non riuscire a diventare Miles Davis (o come Miles Davis) non significa che non si abbia una propria individualità musicale,
occorre solo imparare a coltivarla ovunque ci porti.   :)