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Aveva un suono di tromba soffice, malinconico, voluttuoso e spesso di sconfinata tenerezza il tormentato Tony Fruscella, oriundo italiano del New Jersey perseguitato dalla sorte fin dalla nascita. La sua
storia è un melodramma che farebbe la gioia di uno sceneggiatore di film tragici e lacrimosi. Nato nel 1927, cresciuto all'orfanotrofio, autodidatta con la musica come unica consolazione, Fruscella a 15 anni
studia seriamente il jazz. In piena bebop-era, il sofisticato stilista della tromba suona con Lester Young, Gerry Mulligan, Stan Getz e Brew Moore, rimanendo sempre un "musicista per musicisti". Troppo tardi, nel 1955, registra il primo album a suo nome, questo, che è bellissimo, commovente e fresco di una modernità allora agli inizi. Sette dei nove brani sono firmati dal trombettista e arrangiatore Phil Sunkel, un altro sottovalutato, e il suo bop elegante è un altro pregio del disco. Accompagnano da un affiatato settetto in cui spiccano Allen Eager al sax tenore e Bill Triglia al piano, Fruscella suona con una grazia e un lirismo degni dei Bix Beiderbecke, Chet Baker e Miles Davis d'annata. Ma sfoggia una personalità tutta sua, che avrebbe meritato uno sviluppo più armonico e longevo. Invece, sopraffatto da alcool e droghe, il povero Tony si ammala poco dopo e, a soli 28 anni, sparisce dalla scena del jazz. Sopravviverà solo e dimenticato da tutti fino al 1969, senza ricevere riconoscimenti postumi. L'album Atlantic resta in pratica l'unico mezzo per (ri)ascoltare con piacere intatto un poetico, sublime Tony Fruscella e immaginare cosa avrebbe potuto regalare ancora agli intenditori, se il solito eccesso di frustrazione e autoannientamento, tipico del jazz di quegli anni, non l'avesse ridotto troppo presto al silenzio. Per fortuna c'è questo piccolo capolavoro d'incorrotta purezza.